sabato 24 febbraio 2007

Il Carnevale non finisce mai!


Le prime manifestazioni che ci ricordano il carnevale nel mondo risalgono a 4000 anni fa. Gli Egizi, fin dai tempi delle dinastie faraoniche, furono i primi ad ufficializzare una tradizione carnevalesca, con feste, riti e pubbliche manifestazioni in onore della dea Iside, che presiedeva alla fertilità dei campi e simboleggiava il perpetuo rinnovarsi della vita.
Il carnevale greco veniva celebrato, invece, in varie riprese, tra l'inverno e la primavera, con riti e sagre in onore di Bacco, dio del vino e della vita. Le "Grandi dionisiache" dal tono particolarmente orgiastico, si tenevano tra il 15 marzo ed il 15 aprile, mese di Elafebolione, in Atene, e segnava il punto culminante del lungo periodo carnevalesco.
I "Saturnali" furono, per i Romani, la prima espressione del carnevale e gradualmente, perdendo l'iniziale significato rituale, assunsero la chiara impostazione delle feste popolari, i cui relitti sopravvivono nelle tradizioni di varie zone della nostra penisola, soprattutto nell'Italia del Sud e nelle Isole. Le feste in onore di Saturno, dio dell'età dell'oro, iniziavano il 17 dicembre e si prolungavano dapprima per tre giorni e poi per un periodo più che raddoppiato corrispondente all'epoca dell'annuale ciclo delle nostre feste natalizie e per il loro contenuto al nostro carnevale.
Caratteristica preminente dei "Saturnali" era la sospensione delle leggi e delle norme che regolavano allora i rapporti umani e sociali. Donde l'erompere della gioia quasi vendicativa della plebe e degli schiavi e la condiscendenza del patriziato, che si concedevano un periodo di frenetiche vacanze di costumi e di lascività di ogni genere. Erano giorni di esplosione di rabbia e di frenesia incontrollata, di un'esuberanza festaiola che spesso degenerava in atti di intemperanza e di dissolutezza.
La personificazione del carnevale in un essere umano o in un fantoccio, risale, invece, al Medioevo. Ne furono responsabili i popoli barbari che, calando nei paesi mediterranei, determinarono una sovrapposizione, o meglio una simbiosi, di usi e di costumi, assorbiti quindi dalla tradizione locale, che ne ha tramandati alcuni fino ai giorni nostri, mentre altri si sono fatalmente perduti durante il lungo e agitato andare del tempo.
La chiesa cattolica e le autorità ecclesiastiche, pur tollerando le manifestazioni carnevalesche come motivo di svago e di spensieratezza, di cui la gente, credente o non, teneva in debito conto, considerava e considera il carnevale come momento essenziale di riflessione e di riconciliazione con Dio. Si celebravano, come tuttora avviene, le Sante Quarantore, o carnevale sacro, che si concludevano con qualche ora di anticipo la sera dell'ultima domenica di carnevale.
Il carnevale politico, invece, ha colto in pieno il momento orgiastico dionisiaco per proseguire, ininterrottamente, i riti e le sagre durante tutto l’anno, attraverso la rappresentazione teatrale tragi-comica: “Noi facciamo meglio di voi! Quando eravamo al governo noi le cose andavano meglio! Questo Governo non è in grado di governare, ecc..." Ma, ad un tratto: Tac! Il giochino si rompe, crisi di governo e tutti in fibrillazione, con la faccia di circostanza, nei salotti buoni della tivvù, a prevedere gli scenari futuri.
Da sx, diavolo proprio adesso! Mastella-Rutelli-Ruini, però, sono contenti, per i non DICO; Prodi-D’Alema-Parisi sono contenti, perché a Vicenza, se li rivogliono al Governo, la base si farà e la Tav, pure e in Afghanistan, vedremo!. La sx radicale, illusa ancora che stando al Governo possa piegare i poteri forti, riconferma la fiducia (La gazzella che sbranerà il leone, mah…!).
Da dx, diavolo proprio adesso! Facciamo chiedere le elezioni anticipate solo a chi non conta quasi nulla, Noi, cauti, anche perché se si rivota vinciamo sicuramente e dopo? Chi lo Governo sto Paese, sull’orlo di un collasso? Rovinato, chiaramente, da otto mesi di governo irresponsabile di sinistra. Il quinquennio precedente è stato aureo, se qualcosa non si è fatto la colpa è della sinistra. Mutismo e rassegnazione e avanti col sostegno di tutti per fare, ancora una volta, le cose che vogliono in pochi, fermo restando il non fare le cose che interessano a tutti.
Il carnevale cattolico ha termine il giorno precedente il mercoledì delle Ceneri, ovvero 40 giorni prima di Pasqua, quando, per la chiesa cattolica ha inizio la Quaresima.
Il carnevale politico non prevede scadenze, ma semplicemente piccole correzioni di rotta. Allora? ... alla prossima rappresentazione.

martedì 13 febbraio 2007

San Valentino - il punto



Valentino da Interamna (Interamna Nahartium, attualeTerni), fu vescovo e martire cristiano. È venerato come santo dalla Chiesa cattolica e successivamente dalla Chiesa evangelica: è considerato il patrono dell'amore universale e della città di Terni. Le sue reliquie, le uniche e autentiche riconosciute dal Vaticano, possono essere individuate in due regioni Italiane, in Sardegna presso la chiesa di Ozieri e in Umbria, suo paese d'origine e presso la Basilica di Terni.
Fu convertito al cristianesimo ed ordinato vescovo da San Feliciano di Foligno nel 197. Conosciuto e festeggiato in tutto il mondo, San Valentino patì il martirio anche per aver unito in matrimonio, primo nella storia, una giovane cristiana, Serapia, gravemente malata, e il centurione romano Sabino; l'unione era ostacolata dai genitori di lei ma, chiamato dal centurione al capezzale della giovane morente, Valentino battezzò dapprima il giovane soldato e quindi lo unì in matrimonio alla sua amata, prima che entrambi cadessero in un sonno profondo.
Valentino si trovava a Roma nell'anno 270 per predicare il Vangelo e convertire i pagani. Invitato dall'imperatore Claudio II il gotico a sospendere il rito della benedizione degli sposi e a convertirsi al paganesimo, rifiutò di abiurare la propria fede tentando anzi di convertire l'imperatore al cristianesimo. L'imperatore ebbe rispetto di Valentino e lo graziò affidandolo, in una sorta di residenza coatta, ad una nobile famiglia. Una leggenda narra che Valentino, "affidato" avrebbe compiuto il miracolo di ridare la vista alla figlia cieca del suo carceriere, Asterius: Valentino, teneramente legato alla giovane, la salutò con un messaggio d'addio che si chiudeva con le parole: dal vostro Valentino ....
Valentino venne arrestato una seconda volta sotto Aureliano, succeduto a Claudio II il Gotico. L'impero proseguiva nelle sue persecuzioni verso i cristiani e i vertici della Chiesa di Roma e, poiché la popolarità di Valentino stava crescendo, i soldati romani lo catturarono e lo portarono fuori città lungo la via Flaminia per flagellarlo, temendo che la popolazione potesse insorgere in sua difesa. Questo secondo arresto gli fu fatale: morì decapitato nel 270 o forse nel 273 (la data non è certa). Le sue spoglie furono sepolte sulla collina di Terni dove sorge la basilica in cui sono attualmente custodite, racchiuse in una teca; accanto, una statua d'argento reca la scritta: San Valentino patrono dell'amore. La figura di Valentino come santo patrono degli innamorati viene tuttavia messa in discussione da taluni che preferiscono ricondurla a quella di un altro sacerdote romano, anch'egli decapitato pressappoco negli stessi anni.
La festa di San Valentino venne istituita un paio di secoli dopo la morte di Valentino, nel 496, quando Papa Gelasio I decise di contrapporre alla festività pagana della fertilità (i lupercalia dedicati al dio Luperco) sostituendola con una ispirata al messaggio d'amore diffuso dall'opera di San Valentino. Ricorre annualmente, il 14 febbraio.
E, allora, Champagne e coccole, nella magica notte dedicata agli innamorati.

La dialettica


A ognuno di noi è capitato, almeno una volta, di questionare. Bene! Vediamo di riconoscerci in alcuni principi filosofici dettati, in materia, da Socrate a Schopenhauer. Innanzitutto, bisogna considerare ciò che è essenziale in una disputa. Sovente, accade che la persona con cui questioniamo presenti una tesi e la ritiene unica e immodificabile. Di fronte a questa situazione, noi dobbiamo semplicemente confutare la tesi esposta, a buona o cattiva ragione. Due sono le possibilità di confutazioni. I modi: a) ad rem, cioè mostrare che la tesi non concorda con la natura delle cose, con la verità oggettiva assoluta; b) ad hominem, cioè mostrare che la tesi non concorda con altre affermazioni o ammissioni dell'avversario; ovvero, con la verità soggettiva relativa. Le vie: a) confutazione diretta, quando si attacca, invece, la tesi nei suoi fondamenti, mostrando che non è vera, o mostrando che i fondamenti dell'affermazione sono falsi (nego majorem; minorem); oppure, ammettiamo i fondamenti, ma mostriamo che l'affermazione non ne consegue (nego consequentiam), cioè attacchiamo la conseguenza; b) confutazione indiretta, quando si attacca la tesi nelle sue conseguenze mostrando che non può essere vera. Per la confutazione indiretta si può ricorrere o all'apagoge (figura retorica che tende a giustificare le falsità di un'affermazione sottilineando l'assurdità delle conseguenze applicative), o all'istanza (premessa che smentisce un'altra). Con l'apagoge, quindi, noi assumiamo la tesi dell'avversario come vera: poi mostriamo che cosa ne consegue se, unita a qualche altra proposizione riconosciuta come vera, l'adoperassimo come premessa per un sillogismo da cui discende una conclusione palesemente falsa, in quanto contraddittoria della natura delle cose o delle altre affermazioni fatte dell'avversario. Infatti, da premesse vere possono conseguire solo proposizioni vere, mentre da premesse false non sempre conseguono conclusioni false. Mentre, l'istanza confuta la tesi generale mediante indicazione diretta di casi compresi nella sua enunciazione, per i quali però essa non vale. La tesi generale deve perciò essere falsa.

Da ultimo, ricordiamoci che in ogni disputa bisogna essere d'accordo almeno sulla base di partenza, cioè su cosa si prende come principio per giudicare la questione. Contra negatem principia non est disputandum. Non si disputi con uno che nega i principi di partenza e buona ... disputa!

venerdì 9 febbraio 2007

IV. La politica di ieri e ... di oggi


Il Dittatore (lat. dictator), era una figura caratteristica dell'assetto della costituzione della Repubblica Romana, si ritiene, comunemente, che la dittatura fosse una magistratura straordinaria. Convincimento che si fonda sulla distinzione fra magistrature ordinarie e magistrature straordinarie, estranea, però, alle fonti. Si dovrebbe, anzi, dubitare che la dittatura possa qualificarsi tout-court come una magistratura, perché difetterebbe comunque di due delle caratteristiche essenziali delle magistrature dell'età repubblicana, e cioè della collegialità e della elettività, di cui si è detto. Il Dittatore, infatti, non aveva alcun collega e nominava come proprio subalterno il magister equitum (capo della cavalleria). Il Dittatore era fornito di imperium maius (maggiore), cioè della pienezza dei poteri civili e militari per cui poteva imporre il suo volere a tutti gli altri magistrati o sospenderli dalle loro funzioni. Inoltre, il Dittatore non veniva eletto dalle assemblee popolari, come tutti gli altri magistrati; ma, veniva dictus, cioè nominato, da uno dei consoli, di concerto con l'altro console e con il Senato, seguendo un rituale che prevedeva la nomina di notte, in silenzio, rivolto verso oriente e in territorio romano (Liv. 8.23.13: oriens, nocte, silentio). È probabile che il Dittatore sia l'antico capo della fanteria, il magister populi; questo spiegherebbe l'antico divieto, per lui, di montare a cavallo. Il Dittatore cessava dalla propria funzione una volta scaduto l'anno di carica del Console che lo aveva nominato. Il Dittatore, come detto, era dotato di summum imperium e cumulava in sé il potere dei due consoli; per questa ragione era accompagnato da ventiquattro littori e, non essendo soggetto al limite della provocatio ad populum, i suoi littori giravano anche all'interno della città di Roma con le scuri inserite nei fasci.
Alla dittatura si faceva ricorso solamente in casi straordinari, quando un pericolo esterno o una difficile situazione interna minavano la sicurezza dello Stato. Nel caso, il Dittatore durava in carica fino a quando non avesse svolto i compiti per i quali era stato nominato e, comunque, non più di sei mesi. La carica poteva avere come scopo sedare una rivolta (dictator seditionis sedandae causa), affrontare pericoli esterni e/o governare lo Stato in situazioni di difficoltà (dictator rei gerundae causa). Dittatori nominati, occasionalmente, per motivi contingenti, avevano il compito di:
- comitiorum habendorum causa (convocare i comitia per le elezioni);
- clavi figendi causa (piantare il clavus annalis, il chiodo annuale, nella parete del tempio di
Giove, utile ai fini del computo degli anni);
- feriarum constituendarum causa (determinare le festività);
- ludorum faciendorum causa (officiare i giochi pubblici);
- quaestionibus exercendis (tenere determinate processi);
- legendo senatui (nominare nuovi senatori ai posti che si erano resi vacanti nel Senato).
Il Dittatore più celebre fu Quinto Fabio Massimo detto il Temporeggiatore perché con la sua abile tattica risollevò le sorti di Roma, prostrata per la sconfitta subita al Trasimeno (217 a.C.) per opera di Annibale. Dopo di allora questa forma di dittatura cadde in disuso. In seguito alle lotte tra Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla, questi marciò su Roma e si fece eleggere dai comizi, su proposta dell'interrex Valerio, dictator rei pubblicae constituendae causa et legibus scribundis. Questa nuova dittatura non corrispondeva a quella tradizionale, perché non aveva alcun limite temporale e non era basata su una dictio. Silla tenne questa carica per anni prima di abdicare volontariamente e ritirarsi dalla vita pubblica. La dittatura poteva facilmente degenerare in tirannia quando non si fosse rispettato il limite dei sei mesi posto alla sua durata, il che avvenne sotto Silla e sotto Cesare. Difatti, Giulio Cesare ripristinò la dittatura rei gerendae causa, ma la modificò facendola durare un anno completo. Fu nominato dictator rei gerendae causa per un anno completo nel 46 a. C. e poi fu successivamente designato per nove volte consecutive a questa carica annuale, diventando, di fatto, dittatore per dieci anni. L'anno successivo questi precedenti furono scartati ed il Senato votò per nominarlo dictator perpetuus (dittatore perpetuo). Dopo l'assassinio di Cesare alle Idi di marzo, il suo collega consolare, Marco Antonio fece approvare una lex Antonia che abolì la dittatura e la espunse dalla costituzione repubblicana. La carica fu successivamente offerta ad Augusto, che prudentemente rifiutò ed optò invece per la potestà tribunizia e per l'imperium consolare senza detenere nessuna altra carica che quella di pontifex maximus e di princeps senatus.
Per questi precedenti il titolo di Dittatore, che pure nel Risorgimento fu assunto nobilmente da Garibaldi e da altri capi politici, ha acquistato nella storia recentissima il significato di tiranno e di despota ed è stato applicato particolarmente per designare i capi dei regimi fascista e nazista. Ma, aborrendo quest’ultimo significato dato alla dittatura, i nostri politici potrebbero rispolverarne l’esatto significato e funzione che aveva nell’epoca repubblicana di Roma e prevederne l’applicazione al nostro ordinamento, in chiave staordinaria, affinché nei momenti storici di particolare congiuntura, come oggi, si possa, con un mandato specifico e a scadenza, dare ampi poteri ad una sola persona per risolvere problemi annosi non risolvibili diversamente, quali: riforma, attraverso l’abrogazione, l’accorpamento, la riorganizzazione per oggetto, delle leggi; riforma della scuola; riforma della giustizia; riforma della sanità, riforma del lavoro, riforma dello stato sociale, riforma dell’economia, di cui parlerò nei prossimi post.

mercoledì 7 febbraio 2007

III: La politica di ieri e ... di oggi


Tribuni militum: nella tradizionale organizzazione sociale romana, il capo dei soldati scelto da ognuna delle tre tribù romane era chiamato tribunus clerum o comandante dei cavalieri. Dal 444 al 367 a.C., insigniti dei poteri consolari, questi vennero frequentemente eletti al posto dei regolari magistrati o consoli. Durante l'età repubblicana, a Roma, i sei tribuni militum erano gli ufficiali anziani delle legioni romane. Dopo il 362 a.C. essi vennero eletti annualmente dal popolo nei comitia tributa o assemblee delle tribù. I tribuni divennero in seguito 24 e altri ancora potevano essere nominati direttamente dal console. Verso la fine del periodo repubblicano, tuttavia, il comando sul campo venne affidato a un ufficiale qualificato e ai tribuni vennero attribuite solo cariche onorifiche. L'elezione al tribunato militare era un mezzo per acquisire più importanti cariche pubbliche.
Tribuni plebis: nei primi anni della repubblica tutti i requisiti e le prerogative di governo erano appannaggio dei patrizi, mentre la plebe, che costituiva gran parte della popolazione, sosteneva il peso della tassazione e del servizio militare. Con la rivolta del 494 a.C., la plebe ottenne il diritto di eleggere i propri magistrati, designati alla difesa dei suoi interessi. Inizialmente due, i tribuni della plebe divennero poi dieci (450 a.C.). Essi godevano di tre importanti privilegi: il diritto di difendere i cittadini da ogni accusa; il diritto di veto su ogni legge proposta dal senato romano; la personale inviolabilità per la durata della carica. Ben presto i tribuni garantirono diritti politici a tutta la popolazione. Gli stessi imperatori romani (ad esempio Augusto) assunsero il titolo di tribuno per attribuirsi un'immagine popolare e tutti i diritti costituzionali legati al tribunato.
La carica, così esautorata, perse col tempo importanza, continuando tuttavia a sussistere sino alla dissoluzione dell'impero romano d'Occidente nel V secolo d.C.
Censore: nella Roma antica, era il magistrato incaricato di censire la popolazione. La carica fu istituita verso la metà del V secolo a.C. in conseguenza della riforma centuriata, che si basava sulla suddivisione della cittadinanza in classi stabilite sul censo. In origine solo patrizi, i censori venivano eletti nei comizi centuriati, e scelti tra gli ex consoli. Eletti ogni cinque anni in numero di due, tenevano la carica per diciotto mesi, il tempo necessario per portare a termine il censimento. Il momento della loro elezione era segnato dalla cerimonia della lustratio, la purificazione della città, da cui il termine lustrum (che designa un periodo di cinque anni). Il potere dei censori comunque limitato dalla collegialità e dalla possibilità di procedere a condanne solo previa autorizzazione dei consoli crebbe col tempo, nella misura in cui aumentavano i loro incarichi: revisione delle liste dei senatori (lectio senatus), cura dei costumi dei cittadini (cura morum), manutenzione degli edifici pubblici, controllo degli appalti. Decaduta alla fine della repubblica, la magistratura venne assunta più volte dagli imperatori, spesso in funzione antisenatoria.
Aediles: nella Roma antica, erano i magistrati che sovrintendevano ai lavori pubblici, dotati anche di alcuni poteri di polizia. Agli edili spettava il compito di sorvegliare la manutenzione e i restauri di templi, edifici pubblici, strade, fogne e acquedotti, di controllare il funzionamento dei mercati pubblici e dei valori di pesi e misure; infine, la direzione dei giochi pubblici e il mantenimento dell'ordine pubblico. La carica, istituita nel 494 a.C., era conferita a due membri della plebe, che venivano eletti annualmente. Nel 367 a.C. furono aggiunti altri due edili, gli aediles curules, che fino al II secolo a.C. erano alternativamente scelti, ogni anno, tra patrizi e plebei. Giulio Cesare, egli stesso inizialmente edile curule, istituì due ulteriori edili di rango plebeo (44 a.C.), i ceriales, che sorvegliavano l'approvvigionamento di grano dell'Urbe.Tradizionalmente, l'edilità costituiva la seconda magistratura, che seguiva la questura nella carriera di un uomo politico romano. Nel corso degli ultimi anni della repubblica la carica di edile fu ambita da molti uomini politici, in quanto offriva la possibilità di ottenere un notevole seguito popolare. Sotto l'impero la carica perse d'importanza, tanto che nel 235 d.C. non esisteva più.
Pretore: in origine il titolo era applicato ai consoli, ma quando (367 a.C.) le leggi Licinie Sestie stabilirono che l'autorità suprema dello stato competeva ai due consoli (uno dei quali plebeo), venne creata la pretura come carica separata per le cause civili e inizialmente aperta solo ai patrizi. Normalmente, la durata della carica era annuale e l'età richiesta trent'anni. Dal 337 a.C. poterono accedervi anche i plebei e la pretura divenne il primo gradino per il consolato. Il pretore urbano, che era in realtà un terzo console ed era accompagnato da sei littori, presiedeva tutte le controversie tra i cittadini di Roma, mentre il pretore peregrinus fu incaricato, dal 242 a.C., di condurre i processi nei quali uno o entrambi i litiganti fossero stranieri. Altri pretori vennero creati per l'amministrazione delle nuove province, finché il loro numero salì a sedici. Tra tutti, il pretore urbano era il più importante e, se i consoli erano lontani da Roma, aveva il potere di convocare le riunioni del senato. Magistrati di rango pretorio presiedevano i tribunali speciali istituiti a Roma per trattare crimini come l'estorsione, la corruzione, il tradimento e l'omicidio. I pretori, come i consoli, venivano eletti dal popolo romano riunito nei comizi e detenevano il potere militare. Allo scadere del loro mandato venivano nominati propretori o governatori militari. Con la riorganizzazione delle province, durante l'impero, tutti i governatori delle province imperiali, essendo sotto l'autorità proconsolare dell'imperatore, furono designati come propretori, fossero essi di rango consolare o di rango retorio.
Oggi, come si evince, siamo alquanto lontano dai sistemi aurei dell’epoca repubblicana di Roma del cursus honorus. Non esiste una “carriera” politica/pubblica normata. Il politico, senza nessuna referenza particolare, è mosso, esclusivamente, da interessi personali che possono essere economici o giudiziari. Le qualità morali e professionali che il sistema gli richiede, per riuscire nel suo intento, sono sempre le stesse: capacità, esclusivamente, oratorie e cinismo politico. Non sono richieste altre capacità professionali specifiche e, tanto meno, valori retorici, ma pur sempre pregnanti, come il senso dello Stato, della Patria, della solidarietà, della dignità, della libertà dell’uomo e della famiglia, anche allargata. Al parco buoi viene chiesto, esclusivamente, l’autorizzazione a perseguire i propri intendimenti, attraverso il suffragio universale (facilmente orientabile dai media e dal Vaticano), “concedendo”, in contropartita, la spada di Damocle del debito pubblico, della sicurezza pubblica, dello sviluppo, della crescita, della disgregazione della famiglia, delle imposte, delle tasse, dei contributi, ecc…. Tutte necessità sovrastrutturali dettate, non dalla loro bramosia di potere, ma dell’Europa e del mondo globalizzato. Sarebbe ora di dire basta!

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lunedì 5 febbraio 2007

II. La politica di ieri e ... di oggi




Il cittadino romano che voleva percorrere la carriera politica doveva seguire un determinato ordine chiamato cursus honorus: dopo aver servito dieci anni nell'esercito poteva presentarsi candidato alle cariche nelle seguenti successioni: questura, edilità, curule, pretura, consolato; e poiché fra le varie cariche dovevano intercorrere due anni di intervallo, non si poteva essere console prima dei trentasette anni. Silla, nella sua riforma, spostò a trent'anni l'inizio del cursus in modo che il consolato non poteva essere occupato prima dei quarantatré anni. Il tribunato e la censura non facevano parte del cursus honorum e perciò non erano computati nell'età richiesta per occupare le altre cariche. Oltre alla carriera senatoria un giovane poteva aspirare a carriere più modeste che conducevano a magistrature di minor conto come quella dei decemviri stlitibus iudicandis, specie di giudici, dei tresviri monetales, che si occupavano del conio delle monete e ad altre ancora tutte elette dai comizi tributi.
Cursus Honorum: la carriera politica di un magistrato non poteva essere fermata deponendolo dalla carica prima che scadesse il tempo stabilito per la sua durata e, sebbene potesse essere processato per comportamento illecito, ciò in pratica non accadeva mai. Uscito però di carica, il magistrato tornava ad essere un cittadino qualunque e poteva quindi essere chiamato in tribunale a rendere conto di quanto aveva operato durante la carica. Ogni magistrato, pertanto, era ritenuto responsabile degli atti compiuti nella carica. Le magistrature si distinguevano, abitualmente, in:Magistrature con imperium e senza imperium, in base alla quale, colui che ne era investito, avesse o meno la facoltà di imporre l'esecuzione di ordini sia nel campo civile che in quello militare. Erano, pertanto, magistrati con imperium il console, il pretore, il dittatore, il comandante della cavalleria (magister equitem). Erano magistrati senza imperium il censore, il tribuno, l'edile, il questore. Si distinguevano, ancora, in magistrature maggiori e minori secondo le quali il magistrato aveva la facoltà di trarre gli auspicia maiora o minora: si chiamavano maiora gli auspici che si prendevano osservando il volo degli uccelli in un tratto delimitato di cielo (templum), minora gli altri. Gli auspicia maiora erano propri delle cariche con imperium e potevano essere tratti ovunque, gli auspicia minora spettavano alle altre cariche e si potevano trarre solo a Roma. I magistrati censori, pur appartenendo la loro carica a una magistratura senza imperium, avevano diritto agli auspicia maioria. Il diritto degli auspici non riguardava solo la religione, ma in modo particolare anche la politica perché una irregolarità commessa in tale materia poteva comportare la sospensione o l'annullamento dell'azione del magistrato.
Curuli e non curuli: secondo le quali il magistrato poteva sedere o meno sulla sella curulis, poltrona intarsiata di avorio, che ricordava il currus o carro reale di cui al tempo della monarchia facevano uso i re. I magistrati non curuli sedevano su un semplice sgabello (subsellium). Erano magistrati curuli quelli forniti di imperium e con diritto degli auspicia maiora, non curuli gli altri. I magistrati curuli portavano nei giorni comuni una toga orlata da una striscia di porpora (toga praetexta) che era indossata anche dai bambini, mentre nei giorni festivi indossavano una toga tutta di porpora; gli altri magistrati non portavano nessun distintivo particolare. Infine, le magistrature si distinguevano in straordinarie e ordinarie. Erano magistrati straordinari il dittatore con il maestro di cavalleria, ordinari tutti gli altri. I consoli, i pretori e i dittatori in quanto occupavano cariche con imperium si facevano precedere da littori portanti fasci di verghe con la scure, quali simboli del potere; i consoli erano preceduti da dodici littori, i pretori da due in Roma e da sei fuori; i dittatori da ventiquattro.
Consolato: il consolato era la più alta carica, della repubblica e costituiva la meta suprema della carriera politica di un cittadino romano (cuirite). Uno degli onori più ambiti che essa comportava era quello di dare il proprio nome all'anno (eponimia). I romani, infatti, pur contando gli anni della loro storia dalla formazione di Roma preferivano indicare la data dei singoli avvenimenti col nome dei cittadini che in quell'anno rivestivano la carica di consoli. Ma a parte l'onore dell'eponimia, la carica di console nell'antica Roma comportava contemporaneamente I poteri propri di un capo di stato e di un capo di governo, poteri paragonabili a quelli che nella nostra epoca ha il capo di una repubblica presidenziale, con la differenza, però, che i poteri del console erano limitati alla durata di un anno e dovevano essere condivisi con un collega essendo l'annualità e la collegialità, come abbiamo visto, una caratteristica generale delle magistrature romane; non ripresa da nessuna democrazia attuale.
Proconsole: il magistrato al quale, dopo aver rivestito la carica di console, veniva prorogato l'incarico per il governo o il comando militare di una provincia. Tale proroga (prorogatio imperii), dapprima annuale, divenne di durata più ampia e in seguito a tempo indeterminato; normalmente ai proconsoli venivano concesse due tra le più importanti province dell'impero. Il proconsolato costituì così uno degli strumenti più determinanti nel processo di affermazione del potere personale in età tardo-repubblicana, di cui si servirono personaggi come Pompeo, Cesare e Ottaviano. Oltre che dagli ex consoli, il proconsolato venne rivestito anche dagli ex pretori, con poteri analoghi nelle province a quelli degli ex consoli. Con l'impero, nella suddivisione amministrativa tra province imperiali e province senatorie, ai proconsoli furono attribuite queste ultime.
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venerdì 2 febbraio 2007

I. La politica di ieri e ... di oggi



La Repubblica Romana (Res Publica Romana) fu quello Stato formato dalla città di Roma e dai suoi territori di conquista, nel periodo compreso tra il 509 a.C. ed il 27 a.C., quando la sua forma di governo era una Repubblica oligarchica.
Le magistrature del periodo repubblicano, ancor più di quelle dell’Impero, si distinguevano radicalmente da quelle degli stati moderni, sia per le loro caratteristiche generali che per la loro classificazione e suddivisione; ma, per certi aspetti, sarebbero da seguire, imitare, ripristinare. Le cariche dell’epoca repubblicana erano:
Elettive: a Roma erano elettive non solo le cariche direttive e rappresentative, cioè il consolato e il tribunato, ma anche quelle di carattere giudiziario e amministrativo (pretura, questura, censura) per le quali oggi sono richiesti titoli di studio e speciali corsi, tendenti, attraverso i media, a far apparire l’individuo, più che a sancire le sue capacità professionali.I magistrati così eletti avevano alle loro dipendenze degli impiegati che potevano essere schiavi o liberti con mansioni esecutive. Questi impiegati, con l'espandersi dello Stato romano finirono per costruire una numerosa burocrazia simile a quella che oggi “cura” la Pubblica Amministrazione. Oggi, l’universalità del voto riempie di significato la vuota parola “democrazia”, facendo eleggere mediatici e inconsistenti affabulatori, indipendentemente dalle loro capacità.
Annuali: l'annualità delle cariche derivava dal timore che la gestione di una carica, protraendosi oltre un anno, potesse indurre chi l'occupava a crearsi, come oggi si direbbe, una situazione di potere, tale da costituire un pericolo per la libertà degli altri cittadini. Naturalmente la limitazione della carica ad un anno poteva portare di conseguenza che un magistrato non potesse condurre a termine un'opera per la quale egli era particolarmente adatto: a tale inconveniente si poneva talvolta rimedio col concedere al console e al pretore di continuare le sue funzioni, anche dopo deposta la carica, con la qualifica di proconsole o propretore. Oggi, abbiamo creato un’infinità di Authority e di Commissari straordinari, ma i problemi rimangono sul tappeto e le casse dello Stato si assottigliano.
Collegiali: la collegialità, cioè il dover gestire una carica non da solo, ma insieme con uno o più colleghi, era un'altra limitazione del potere di un magistrato, derivante anch'essa dalla preoccupazione che chi governava da solo, senza controllo, potesse abusare della carica a danno dei singoli cittadini. Connesso con la collegialità era il diritto di veto, anch’esso diretto a limitare il potere dei pubblici magistrati. Infatti, quando un magistrato non approvava l'azione del suo collega poteva fermarne l'esecuzione opponendo il suo. Questo, poteva causare la paralisi di ogni attività. Per rimediare a tale inconveniente, i magistrati o comandavano a turno (un mese l'uno, un mese l'altro), oppure si ripartivano i compiti da eseguire in modo che nessuno fosse di ostacolo all'altro.Il diritto di veto poteva essere esercitato anche da un magistrato inferiore per impedire che il magistrato superiore riunisse i comizi, mediante l'obnuntiatio, cioè annunziando che gli auspici non erano favorevoli, oppure dai tribuni della plebe contro un console in difesa di un plebeo: in questo ultimo caso si chiamava intercessione (intercessio). Oggi, la collegialità e il diritto di veto sono rimasti, paralizzando, però, l’attività dei governi, a meno che non si scelga la strada, come si è scelta, di fare le leggi che aggrada all’opposizione, rinviando alle calende greche i veri problemi del Paese reale, deludendo le aspettative dei sostenitori e generando, come conseguenza, la disaffezione alla politica.Gratuite: le cariche pubbliche erano chiamate comunemente onori (honores), e la legge non prevedeva compensi per coloro che le ricoprivano. Il cittadino doveva aspirare alla carica in sé e contentarsi del prestigio che gliene sarebbe derivato, senza alcun profitto materiale. La cosa tuttavia non era priva di inconvenienti sia perché colui che occupava una carica senza alcun compenso poteva più facilmente cedere alla tentazione di profittare del denaro pubblico, sia perché la carriera politica, in tal modo, era accessibile ordinariamente solo alle persone benestanti che potevano dedicarsi alla gestione delle cariche senza danno per la loro situazione economica. Oggi, in Italia le cariche elettive comportano generalmente un'identità più o meno rilevante e la Costituzione consente a tutti i cittadini che ne abbiano i requisiti, di potersi dedicare all'adempimento dei “doveri” che una carica pubblica comporta. In pratica, però, la politica attuale è auto referenziale (un es.: art. 84 Cost.) e i doveri costituzionali sono, normalmente, intesi come diritti, compreso quello della lauta retribuzione, dissestante delle casse dello Stato, per il nobile principio del “non essere distolto” da preoccupazioni economiche, durante l’esercizio del mandato.
Ergo, per rimanere nell’esempio, nessun cittadino, diverso da un uomo politico, che abbia superato 50 anni e che goda dei diritti civili e politici, è stato mai eletto Presidente; nessun elettore/eleggibile, è stato mai eletto Senatore o Deputato, se non per volontà delle segreterie di partito. Pertanto, ritengo definibile, la nostra, come la platonica società chiusa, mirante, cioè, a preservare all’infinito un ordine considerato perfetto, che include ogni aspetto dell’esistenza umana.
Platone sosteneva che le forme di Stato sono fondamentalmente oligarchiche. L’istituzione non esiste senza l’uomo, e la qualità di un governo dipende dalla qualità degli uomini che lo compongono, molto più che dai formalismi istituzionali. Diceva, si può pensare di affrontare il tema della ricerca del miglior governo, individuando un metodo che porti i migliori a governare. E’questa la tesi di Platone, difatti, la società ateniese era ripartita per censo, ed i pieni diritti di eleggibilità spettavano solo ai più ricchi; la maggioranza della popolazione non aveva neppure la cittadinanza, trattandosi di schiavi o di stranieri residenti. Ed era, stranamente, il popolo ateniese che seguiva le tendenze aristocratiche di Platone, rabboniti dai suoi discorsi. Oggi, in chiave moderna, accadono le stesse cose per autoreferenzialità della politica e disaffezione alla stessa.
Karl Popper sosteneva, invece, a giusta ragione, nella sua società aperta (vagamente assomigliabile alla democrazia), che non si potrà mai fare in modo che siano i migliori a governare, quindi occorre costruire un sistema che semplicemente limiti il potere dei governanti, evitando che possano approfittare troppo del ruolo, dando per assodato che il tipico uomo di governo sia mediocre ed incline a fare i propri interessi anziché quelli dei cittadini. La libertà individuale diviene, pertanto, il punto cruciale, perché, appunto, lasciando libera l’iniziativa dell’individuo si ottiene quella dinamica sociale e culturale che meglio consente lo sviluppo dell’umanità nel suo insieme.
Ancora, J. S. Mill: ”Non è difficile dimostrare che la migliore forma di governo è idealmente quella in cui la sovranità, vale a dire il supremo potere di controllo in ultima istanza, risiede nella comunità nel suo insieme, in cui ogni cittadino non solo ha una voce nell’esercizio della sovranità, ma è chiamato, almeno occasionalmente, a svolgere una parte attiva nel governo, grazie all’esercizio di qualche funzione pubblica, locale o generale”.
La ragione vuole che si limiti sempre più il potere dei governanti attraverso la generalizzazione dell’intervento diretto del cittadino nelle scelte e nel controllo della res pubblica.
Segue...