venerdì 2 febbraio 2007

I. La politica di ieri e ... di oggi



La Repubblica Romana (Res Publica Romana) fu quello Stato formato dalla città di Roma e dai suoi territori di conquista, nel periodo compreso tra il 509 a.C. ed il 27 a.C., quando la sua forma di governo era una Repubblica oligarchica.
Le magistrature del periodo repubblicano, ancor più di quelle dell’Impero, si distinguevano radicalmente da quelle degli stati moderni, sia per le loro caratteristiche generali che per la loro classificazione e suddivisione; ma, per certi aspetti, sarebbero da seguire, imitare, ripristinare. Le cariche dell’epoca repubblicana erano:
Elettive: a Roma erano elettive non solo le cariche direttive e rappresentative, cioè il consolato e il tribunato, ma anche quelle di carattere giudiziario e amministrativo (pretura, questura, censura) per le quali oggi sono richiesti titoli di studio e speciali corsi, tendenti, attraverso i media, a far apparire l’individuo, più che a sancire le sue capacità professionali.I magistrati così eletti avevano alle loro dipendenze degli impiegati che potevano essere schiavi o liberti con mansioni esecutive. Questi impiegati, con l'espandersi dello Stato romano finirono per costruire una numerosa burocrazia simile a quella che oggi “cura” la Pubblica Amministrazione. Oggi, l’universalità del voto riempie di significato la vuota parola “democrazia”, facendo eleggere mediatici e inconsistenti affabulatori, indipendentemente dalle loro capacità.
Annuali: l'annualità delle cariche derivava dal timore che la gestione di una carica, protraendosi oltre un anno, potesse indurre chi l'occupava a crearsi, come oggi si direbbe, una situazione di potere, tale da costituire un pericolo per la libertà degli altri cittadini. Naturalmente la limitazione della carica ad un anno poteva portare di conseguenza che un magistrato non potesse condurre a termine un'opera per la quale egli era particolarmente adatto: a tale inconveniente si poneva talvolta rimedio col concedere al console e al pretore di continuare le sue funzioni, anche dopo deposta la carica, con la qualifica di proconsole o propretore. Oggi, abbiamo creato un’infinità di Authority e di Commissari straordinari, ma i problemi rimangono sul tappeto e le casse dello Stato si assottigliano.
Collegiali: la collegialità, cioè il dover gestire una carica non da solo, ma insieme con uno o più colleghi, era un'altra limitazione del potere di un magistrato, derivante anch'essa dalla preoccupazione che chi governava da solo, senza controllo, potesse abusare della carica a danno dei singoli cittadini. Connesso con la collegialità era il diritto di veto, anch’esso diretto a limitare il potere dei pubblici magistrati. Infatti, quando un magistrato non approvava l'azione del suo collega poteva fermarne l'esecuzione opponendo il suo. Questo, poteva causare la paralisi di ogni attività. Per rimediare a tale inconveniente, i magistrati o comandavano a turno (un mese l'uno, un mese l'altro), oppure si ripartivano i compiti da eseguire in modo che nessuno fosse di ostacolo all'altro.Il diritto di veto poteva essere esercitato anche da un magistrato inferiore per impedire che il magistrato superiore riunisse i comizi, mediante l'obnuntiatio, cioè annunziando che gli auspici non erano favorevoli, oppure dai tribuni della plebe contro un console in difesa di un plebeo: in questo ultimo caso si chiamava intercessione (intercessio). Oggi, la collegialità e il diritto di veto sono rimasti, paralizzando, però, l’attività dei governi, a meno che non si scelga la strada, come si è scelta, di fare le leggi che aggrada all’opposizione, rinviando alle calende greche i veri problemi del Paese reale, deludendo le aspettative dei sostenitori e generando, come conseguenza, la disaffezione alla politica.Gratuite: le cariche pubbliche erano chiamate comunemente onori (honores), e la legge non prevedeva compensi per coloro che le ricoprivano. Il cittadino doveva aspirare alla carica in sé e contentarsi del prestigio che gliene sarebbe derivato, senza alcun profitto materiale. La cosa tuttavia non era priva di inconvenienti sia perché colui che occupava una carica senza alcun compenso poteva più facilmente cedere alla tentazione di profittare del denaro pubblico, sia perché la carriera politica, in tal modo, era accessibile ordinariamente solo alle persone benestanti che potevano dedicarsi alla gestione delle cariche senza danno per la loro situazione economica. Oggi, in Italia le cariche elettive comportano generalmente un'identità più o meno rilevante e la Costituzione consente a tutti i cittadini che ne abbiano i requisiti, di potersi dedicare all'adempimento dei “doveri” che una carica pubblica comporta. In pratica, però, la politica attuale è auto referenziale (un es.: art. 84 Cost.) e i doveri costituzionali sono, normalmente, intesi come diritti, compreso quello della lauta retribuzione, dissestante delle casse dello Stato, per il nobile principio del “non essere distolto” da preoccupazioni economiche, durante l’esercizio del mandato.
Ergo, per rimanere nell’esempio, nessun cittadino, diverso da un uomo politico, che abbia superato 50 anni e che goda dei diritti civili e politici, è stato mai eletto Presidente; nessun elettore/eleggibile, è stato mai eletto Senatore o Deputato, se non per volontà delle segreterie di partito. Pertanto, ritengo definibile, la nostra, come la platonica società chiusa, mirante, cioè, a preservare all’infinito un ordine considerato perfetto, che include ogni aspetto dell’esistenza umana.
Platone sosteneva che le forme di Stato sono fondamentalmente oligarchiche. L’istituzione non esiste senza l’uomo, e la qualità di un governo dipende dalla qualità degli uomini che lo compongono, molto più che dai formalismi istituzionali. Diceva, si può pensare di affrontare il tema della ricerca del miglior governo, individuando un metodo che porti i migliori a governare. E’questa la tesi di Platone, difatti, la società ateniese era ripartita per censo, ed i pieni diritti di eleggibilità spettavano solo ai più ricchi; la maggioranza della popolazione non aveva neppure la cittadinanza, trattandosi di schiavi o di stranieri residenti. Ed era, stranamente, il popolo ateniese che seguiva le tendenze aristocratiche di Platone, rabboniti dai suoi discorsi. Oggi, in chiave moderna, accadono le stesse cose per autoreferenzialità della politica e disaffezione alla stessa.
Karl Popper sosteneva, invece, a giusta ragione, nella sua società aperta (vagamente assomigliabile alla democrazia), che non si potrà mai fare in modo che siano i migliori a governare, quindi occorre costruire un sistema che semplicemente limiti il potere dei governanti, evitando che possano approfittare troppo del ruolo, dando per assodato che il tipico uomo di governo sia mediocre ed incline a fare i propri interessi anziché quelli dei cittadini. La libertà individuale diviene, pertanto, il punto cruciale, perché, appunto, lasciando libera l’iniziativa dell’individuo si ottiene quella dinamica sociale e culturale che meglio consente lo sviluppo dell’umanità nel suo insieme.
Ancora, J. S. Mill: ”Non è difficile dimostrare che la migliore forma di governo è idealmente quella in cui la sovranità, vale a dire il supremo potere di controllo in ultima istanza, risiede nella comunità nel suo insieme, in cui ogni cittadino non solo ha una voce nell’esercizio della sovranità, ma è chiamato, almeno occasionalmente, a svolgere una parte attiva nel governo, grazie all’esercizio di qualche funzione pubblica, locale o generale”.
La ragione vuole che si limiti sempre più il potere dei governanti attraverso la generalizzazione dell’intervento diretto del cittadino nelle scelte e nel controllo della res pubblica.
Segue...

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